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Título del texto editado:
De’ pregi e delle vicissitudini della poesia lirica degli Spagnoli
Autor del texto editado:
Calà Ulloa, Pietro 1802-1879
Título de la obra:
Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti, anno IV, vol. XII
Autor de la obra:
VV.AA.
Edición:
Nápoles: Tipografía Flautina, 1835


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LETTERE

De’ pregi e delle vicissitudini della poesia lirica degli Spagnoli.


Niuno in Italia e fuori, per quanto sappiam noi, ragionando intorno la poesia degli Spagnoli, ha preso mai ad esaminar quale fosse l’indole e la natura della lingua, e come si raccomandasse alle muse. Eppur ci sembra che questo esame si fosse dovuto mettere innanzi ad ogni altro. Che così forse non si sarebbe da molti disdegnata, né sarebbe in valsa appresso di noi generalmente questa sentenza che danna quella bellissima e gravissima lingua come non degna da additarsi ad esempio degli studiosi. Epperò senza volgerci an zi alle popolari credenze che al vero, siam venuti nel pensiero di esporre rapidamente una serie di nostre osservazioni ni, frutto di alcune indagini sugli scrittori di quella nazione, e di venir via via ragionando delle vicissitudini della poesia lirica degli Spagnoli da che nacque sino a ‘ tempi nostri. Cercherem, dunque, di adempiere a questo ufficio, essa minando spesso quale opinione neportino gli stessi scrittori spagnoli, perché col giudizio di tali oracoli meglio si fermi il nostro.

Della lingua spagnola, come della più parte delle fa belle moderne, la latina fu avola, ma la romanza fa madre. La spagnola, in quanto importa la poesia, ha grandissime qualità e vantaggi che la rendettero sempre eccellente. Che se per ventura cede a taluna in dolcezza e soavità a tal altra in libertà ed audacia, s’ha poche lingue moderne che riuniscan tante qualità essenzialmente poetiche. Imperocchè è ricca, sonora, soave, energica, vigorosa, semplice ne’ costrutti, libera nel collocamento delle parole, varia negli accenti e ne’ saoni, a tutti gli argomenti soprammodo adatta. Si è soventi volte ripetuta quella sentenza di Carlo V, che la sola lingua spagnola valesse a favellar cogli Dei. Noi, come ché non sappiamo darci a credere che quel tedesco imperatore così sentenziasse, beggiamo che tutti si accordano nel confessare i pregi di quella lingua, come sonora, piena, rotonda, atta a descrizioni nobili e pensieri sublimi. E che checché ne abbian pensato diversi scrittori (e certo non così di grido come l’Alembert che la commenda), noi non dubiteremo affermare che essa molto si avvicini, e più di quanto venga generalmente creduto, alla latina. Basterebbe a chi ne movesse dubbio svolgere le opere dell’Herrera, perché scorgerebbe di leggieri sino a qual punto elevar si possa nelle espressioni colla nobiltà de ‘pensieri, colla pompa e colla ricchezza. E fu questo un pregio che tenne sin dall’infanzia, e pel quale venne poscia in tanta grandezza. Ben questo è vero, che sebbene contender non possa in soavità e melodia coll’italiana per isfogar cantando i dolci affetti dell’animo, pure essa è quella che le si tien più di appresso, ed è per ventura la sola degna d’esserle rivale di appresso, ed è per ventura la sola degna d’esserle rivale. E venir potremmo citando diversi luoghi delle egloghe del Garcilaso, per le quali si prova che talvolta non cede in dolcezza all’italiana. E recar si potrebbe segnatamente in esempio un’assai bella versione fatta dal Jauregui dell’Aminta del Tasso, e che levò grandissimo rumore nelle Spagne.

Creduto si è per molti che la lingua spagnola non serbi abbastanza di sveltezza e libertà né modi, né agguagli le altre lingue in facilità e fluidezza. Noi non vogliamo ciò negar all’in tutto, ma ci sentiamo inchinati a pensare che es ser possa questa anzi la colpa degli scrittori che della lingua. Perché Melendez, ad esempio, fu tale poeta da mostrar come la lingua per esso fosse suscettiva di somma flessibilità. Comunque, però non venisse con tutte le possibili cure coltivata, giunser nondimeno ii poeti a dar talvolta a’ loro versi un movimento tardo o veloce a seconda de ‘pensieri, e talvolta colla sola struttura del verso seppero dipinger le circostanze più delicate. E però abbonda la poesia spagnola di bellezze d’armonia imitativa. Ne sappiamo in qual altra lingua, salvo l’italiana, venir si potrebbe con parole più proprie delineando la distruzione del mondo, e la battaglia di Lepanto, come dall’Herrera venne fatto. E così scorgiamo pure con somma dolcezza, ed a’soli italiani possibile, aver il Rioja cantato la sua cancion à la rosa, il de la Torre il naufragio e la tranquillità della condizione umile. E molti esempi havvene pare nelle egloghe del Garcilaso.

Dall’ imperfetta prosodia delle lingue moderne nacque il bisogno della rima, sebbene non sia affatto d’una imperiosa necessità alla poesia spagnola, la quale è così piena d’armonia non solo, ma è ricca di parole di varia lunghezza, dal monosillabo sino a quelle di sette sillabe, e talune di dieci ed anco di undici. Dal che ne segue un movimento libero ne ‘metri, ed un collocamento dell’accento in cinque sillabe differenti. Varietà assai aggradevole, e per la quale viene ad esser cansata la monotonia non solo, ma si consegue una prosodia che ad un di presso si accosta alla latina. Cede, come per noi si disse, in quanto alla sua vita ed armonia al l’italiana, perciocché non ha di molte parole terminanti in vocale, ed ha per l’opposto talune lettere, derivate dagli Arabi, aspre e gutturali. Ma esse si riducono a tre sole, né la loro frequenza è tale che non possano assolutamente schivarsi. La sola terza parte delle lettere termina poi in consonanti, e queste son le più dolci e soavi dell’alfabeto, e sbandite ne sono quelle si ruvide e poco musicali usate da ‘Latini e da altri popoli moderni, e niuna termina in due consonanti di seguito, come presso i Latini avveniva ed ora avviene appresso gl’Inglesi, i Francesi, i Tedeschi ed altri popoli d’Europa. E vorremmo che si notasse come le desinenze delle parole spagnole sien per lo più quelle stesse che non tolsero alla greca favella l ‘ esser dolce e soavissima. Tutti i vantaggi poi della lingua italiana per la nettezza di suoni, gli accenti e la prosodia, tutti si rin vengono nella spagnola, e se l’una ha la prerogativa di finire in vocali le parole, l’altra ha quella d’ esser più varia nelle terminazioni, e se ha qualche desinenza gotica, l’altra ha pare gli sgradevoli iati. Ma le doti comuni alle due lingue meglio discorreremo altra volta più diffusamente, parlando dell’in dole poetica di talune lingue moderne, opera che faremo se il tempo e l’occasione non ci distorneranno da questo proposito. Oltre adunque che è assai agevole, come dicemmo, il cansar le parole che finiscono in talune consonanti, le vocali d’altronde son chiare e distinte, donde deriva il pregio della rotondità e dell’armonia della lingua. Ag giunger può molto valore a questi argomenti delle doti mu sicali della lingua spagnola, lo scorger con quanta felicità venne adottato il verso sciolto nella poesia. Il quale, spoglio essendo dell’incanto della rima, va debitore di tutta la sua forza alla grata combinazione de’ suoni ed alla interna cadenza de’ metri. Né tutte le lingue de’ moderni han bastante armonia per adottarlo. Tolsero gli Spagnoli il verso sciolto nel Seicento, a secolo già inoltrato, dagl’ Italiani. Si volsero a coltivarlo e ad arricchirlo con nuovi modi e grazie il Vela il Figueroa, ed il Jauregui, che tolse, come notammo, a tradurre l’Aminta del Tasso. Ma quando poi gli sta dii poggiarono in falso, e gl’ingegni si pascevano di pensieri giganteschi, di turgide espressioni e di pompose vanità, il verso sciolto venne negletto, quasi che con la sua modestia facesse onta alla boria de’ corrompitori del gasto. La stessa rima, che gli Spagnoli, a differenza degli altri popoli d’Europa, han tolto dagli Arabi, venne così arricchita, che ne risaltaron molte opportune combinazioni assai aggradevoli nella versificazione, e taluna piena di grazia e di vezzo. Eco, dunque, la lingua spagnola non abbia quella stabile proso dia, come già la latina, pure vennero in essa praticati alcuni saggi, i quali non furon del tutto sventurati. Fa primo nel secolo XVI il Bermudez, come troviamo scritto, ne’ cori delle sue tragedie, e poscia il Villegas, seguito da non pochi altri, che si studiarono d’imitare ed emulare i metri latini. Forse che intendevano a mostrar che non sarebbe stato malagevole del tutto e vantaggioso per avventura l’adottar li. Così Claudio Tolomei, come è notissimo, tento introdurre fra noi l’antica usanza del ritmo per innalzar la propria lingua all’altezza della greca. E vi ebbe pure degli scrittori di grido, come il Fracastoro, che più oltre condussero la sua invenzione. Ma la lingua italiana aveva già acquistate regole tutte sue proprie, né sì agevolmente poeta piegarsi al l’altezza dell’antica prosodia. Non così pensiamo della spagnola: imperocchè egli è vero, che, come nell’italiana, l’uso de’ verbi ausiliari, gli articoli, la stessa desinenza de ‘casi si oppongono all’introduzione del numero antico; le perpetue desinenze in vocali, che snerverebbero gli esametri italiani, in essa non si rinvengono, anzi potrebbero sostenersi nella loro pienezza e rotondità mercè il sussidio delle consonanti, come si vede aver fatto i Greci ed i Latini.

Il verso alessandrino o martelliano di quattordici sillabe può tenersi come il primo saggio nell’infanzia della poesia spagnola. Epperò lo troviamo usato ne ‘poemi del Berceo, in quello d’Alessandro, ed in quello che contiene la storia del conte Hernan Gonzalez a on di presso della stessa epoca. Visse la poesia spagnola in povertà e ristrettezza, in quanto a ‘metri, sino al secolo XVI in cui salì a tanta altezza. I rapidi progressi delle lettere, la maggior perfezion del linguaggio, l’intimo e continuo commercio con l’Italia, partorirono si mili vantaggi. Fu allora che si adottò l’endecasillabo, che ebbe a tempo di Carlo V il nome d’italiano. Ora la poesia spagnola ha metri da quattro a quattordici sillabe, e con essi Iriarte sul cader del passato scolo tento sino a quaranta specie di versificazioni diverse. Ma una cosa del tutto peculiare alla spagnola poesia, che né prima né dopo venne da alcun altro popolo praticata, è quel mezzo che tiene tra la rima perfeita ed il libero andamento del verso sciolto. Imperocchè si usano de’ ver si i quali finiscono con una terminazione non del tatto uguale, ma con una cadenza abbastanza simile per produrre un suono aggradevole. Un tal modo dicesi assonante, mercè del quale non demandassi già che sia le stesse le consonanti finali, ma sì bene somiglianti le sole vocali.Così fan rima vias con mentiras, vence con detiene, pierdes con quieres, e simili. Il suono delle vocali è così chiaro e distinto, che riesce di molta piacevolezza, senza che si faccia avvertenza alle consonanti. E si giunge a tale, che quando tra le vocali ve ne ha di quelle più piane e sonore delle altre, come ad esempio in un dittongo, si nota quella che predomina pel suo suono e l’altra ne viene ad essere come ecclissata. Così tienes fa rima con vuelves, lleno con recio e fuero. Ma tale vantaggio della poesia spagnola è tenue to in assai poco conto dagli stranieri, e a dritto, a quanto pensiamo; imperocchè l’avvertir siffatte rime deriva dalla delicatezza dell’udito, avvertenza che sfuggir deve ad orecchio straniero. Però gli Spagnoli senton tosto la differenza che corre tra il verso suelto e l’asonantado, segnatamente negli endecasillabi di cui si piace la tragedia, e nel romance preferito dalla commedia moderna. Il romance asonantado è la poesia più nazionale che sia nelle Spagne. Ha l’a sonante molta popolarità, né fu il volgo che il tolse a poeti, ma questi da quello. Perlocchè pensiamo ch’esser potesse in sulle prime, per l’imperfezion della lingua, una rima imperfetta; la quale, perché si considerò che non dispiace va venne come legittima adottata. S’introdusse quasi sul calar del Seicento, per lo più ne’ versi ottonari o di romance, e sino a ‘tempi di Lope de Vega non se ne stese l’uso a versi più brevi. Ma poscia a mano a mano venne dando grazia e vezzo alle anacreontiche, e si associò al verso endecasillabo, e formò il romance heroico sul cader del secolo XVII. Ma per non istare troppo lungamente in questa parle della spagnola poesia, diremo che molte tracce fra noi si rinvengono dell’assonanza né canti della plebe napolitana, che forse dagli spagnoli la derivò, dove è pure assai spesso una simile terminazione e somiglianza di sole vocali. 1

Consente la lingua spagnola tale ampiezza e libertà nel collocamento delle parole, che assai spesso è in facoltà del poeta l’alterare il rigoroso ordine grammaticale. Una libertà così fatta, con temperanza praticata, dà varietà allo stile poetico e lo eleva sopra la prosa; la quale è cosi diversa dalla poesia, che le parole usate dall’ona non posson tutte, come avvien nell’italiana lingua, adottarsi dall’altra. E questa è una delle più notabili differenze che corrono tra queste due lingue e la francese, e che ne rende diversa l’indole ed il carattere, segretamente poetico. Herrera ha usati molti modi che sono assai più propri della greca che di qualunque altra lingua. Le licenze della poesia spagnola son molte, ed anche per esse in gran parte si avvicina all’Italiana. Così consente la soppression degli articoli e delle parti celle che non sono indispensabili, e talvolta del verbo, qua lora dar si possa con ciò maggior nerbo al pensiero. Talora concede l’accortare o l’alungar delle voci, in parole che lo tollerino, come ché in ciò molto lungi ancora resti dall’ italiana. Così ne’ classici spagnoli si scorgono divise le vo cali che forma dittongo per accrescere una sillaba, e si tro vano unite pel bisogno contrario. E talvolta ancora, ma non vedessi praticato assai spesso, gli Spagnoli al pari degl’Italiani dividono gli avverbi. Come poi a sfuggir l’incontro di più vocali consente la lingua italiana la soppressione d’una vocale finale, la spagnola, che incorrer può nel difetto op posto, permette d’ unire una lettera alla finale d’una parola che atta fosse ad aggiunger sillaba o ad impedir lo scontro aspro di più consonanti. Avvien per l’opposto talvolta che si sopprima una lettera, come, ad esempio, toghe si las finale perché si ottenga apena per apenas. E si giunge finna co non solamente a sopprimere una lettera nel mezzo della parola per fare una contrazione, come espirtu per espiritu, ma a dare nella poesia a qualche parola castigliana un significato che non ha, quante volte derivar lo possa dal latino. Comunque, poi inferiore alla greca, alla latina ed all’ italiana, la lingua spagnola ha pure l’arbitrio di comporre una parola da varie altre ritenendo le immagini. 2 Così senza sforzo è in facoltà d’un poeta il dir undisono, mortifero, aligero, flamigero, potendosi unir l’espressione all’armonia.

Ora scorreremo rapidamente la storia della poesia spagnuola, per la quale speriamo mostrare in miglior ordine e lume quali sieno state sempre le qualità che la rendettero eccellente. La poesia spagnola videsi nascere nel secolo XII al tempo stesso della lingua, mostrando nel Poema del Cid un informe embrione. Ne altrimenti esser poeta, poiché non conosceasi né esattezza né misura de’ versi, né cadenze, né consonanze, perché cominciavasi quasi diremo a balbettar l’idioma. Ma nel tempo di S. Ferdinando e di Alfonso il Savio cominciò a venire in qualche pregio, specialmente per lo favore che le fu conceduto dall’ ultimo de’ due. Il quale fu tanto superiore a ‘ tempi da lui vissuti, o creò tal mente nel suo regno l’amore delle eleganze e della poesia, che egli stesso vien tenuto come autore di alquanti poetici componimenti. Parve allora che si rompesse il sonno delle calde ed immaginose menti spagnole. Cotanto è vero, come già notava quel bello e peregrino intelletto del Perticari, che i governamenti fondano e spiantano a loro senno le lettere, le arti e tutte le beatitudini de ‘popoli. Per questi favori adunque videsi la poesia spagnola nel secolo XIII veni re in maggior fiore, come è chiaro per vari poemi di D. Gonzalo di Berceo, e poi componimenti di quello stesso re Alfonso, ne sia o pur no esso l’autore. E vi ebbe ne’ principii del secolo XIII chi fosse sì ardito da cantar un poema in onore di Alessandro, e far prova d’una certa elocuzione non del tutto indegna dell’epopea. Né avrebbe la poesia spagnola indugiato molto ad emergere perfetta, se le guerre città dine non fosser venute ad insanguinar le Spagne ed a bandir le arti tutte della pace; per la qual cosa, comechè siasi detto che le muse più facilmente derivino la loro poetica sublimità da’ procellosi che non da’ felici avvenimenti, forza non ebbe per uscir dall’ infanzia. E cospirarono i tempi a disertarla, in guisa che pe’ pochi poeti del secolo XIV non si scorge che fosse divenuta più ricca, né la favella più matura. Fra gli scrittori di quel tempo vanno notati come più colti e peregrini ingegni il Manuel e l’arciprete de Hita. Ma nel regno di D. Errico III, e meglio sotto quello del figlio D. Giovanni II, si formò la poesia a maggiore eleganza, e si vide perciò inoltrarsi con passo più sicuro nel secolo XV. E fu cagione di quella prosperità, non solamente quella generale civiltà che andavasi d’ogni parte diffondendo, ma l’influenza salutare di alcuni principi, che sorger fecero ingegni assai chiari, i quali divulgaron colle loro opere l’amore ed il guasto della poesia. Epperò negli antichi canzonieri in dove si vengono raccolte le poesie di quell’ epoca, si nota una migliore scelta di argomenti, una favella meno aspra e più castigata, una versificazione più flessibile ed armoniosa. Il de Mena per l’invenzione de ‘soggetti, pel vigore de pensieri, per l’ardire onde svolse la lingua che tolse ad arricchire, pel tuon robusto e grandioso delle sue poesie, va a buon dritto tenuto in pregio di buon poeta. Nel suo laberinto segnatamente si rilevan tutte queste sue doti. Appresso al quale non men riputati furono il Marchese di Santillana autor pure d’un’ epistola sulla storia della poesia, Errico di Villena, Manrique, de la Encina, ed altri molti che sino al secolo seguente si volsero con prospero successo a coltivar la poesia. Ma troppo studiavansi colle loro opere di emular gli scrittori latini, calcando le orme de’ quali ne imitavan la sintassi e la frequente trasposizione delle parole. Lope de Vega notava, alludendo alle violente trasposizioni del Mena, che si tolleravano allora nella lirica spagnola, quanto schiava si fosse fatta della latina. Né per questa troppo religiosa imitazione degli antichi veggiam che la lingua salisse in grandezza ed acquistasso tutto lo splendore del quale era pur meritevole. Imperocchè come videsi nata nel secolo XII, scorso non eran cento al tri anni appena e si trovò assai avvantaggiata. E comunque non debban riputarsi di D. Alfonso il Savio le poesie che gli vengono universalmente attribuite, pur tuttavia alte sono di per sé stesse a provar che la lingua spagnola era di già molto perfezionata, e già forse aspirar poeta a contendere coll’italiana. Imperocchè se questa si avvantaggiò nel secolo seguente, la spagnola le fu seconda, e fu ripulita gran tempo in nanzi che l’inglese e la francese non fossero. Crebbe nel secolo XV, e gli sforzi di tanti poeti contribuirono a condurla a maggior precisione ed eleganza. Però da quanto fatto venne dal Garcilaso e dall’ Herrera, argomentar si può di leggieri in qual fior di bellezza sarebbe venuta se avuto avessero imitatori. Ma la lingua declinò col buon gusto, contando un regno fortunato di poco men d’un secolo. Fu nel secolo XV che non tardò a diffondersi, ad esempio degl’Italiani, il verso endecasillabo. Il quale, come ché fosse noto molto tempo in nanzi, non era, o raramente, usato. La poesia spagnola assai se ne giovò, e mezzo secolo dopo il de Mena, sorse quel Garcilaso, mercè l’opre del quale la lingua e la poesia spiegarono maggior pompa è ricchezza, e l ‘ epoca in che visse meritò il nome di secol d’oro. Sorsero allora a gara ingegni prestantissimi, come Ercilla, Cespedes imitator di Virgilio, il sublime Herrera, l’elevato F. Luigi de Leon, Gil Polo, Figueroa, Balbuena, Villaviciosa, il co retto e limato Rioja, Jauregni, i due Argensolas, Villegas, il festivo Quevedo, con altri felici intelletti, ed in cima a tutti il fecondo Lope de Vega. L ‘ Herrera ed il Leon, imbevuti degli studi de ‘libri sacri, ne usavan con felicità e maestria. E tutti stabilirono i più bei fasti letterari spagnoli, con sacrando colle loro opere la bellezza, la forza e la parità del linguaggio.

Ma già in Lope de Vega, ed in altri autori, a scoregere cominciavasi i vizi che poscia offuscaron la poesia spagnola nel secolo XVII. Spesso ed a ragione si disse fra noi, come troppo cercandosi il nobile ed il grande, si trovi il turgido e lo strano, e come dall’eleganza con facilità si passi all’ affettazione, dalla semplicità agli ornamenti e da questi al lusso. Gli spagnoli al pari di noi ne fecero infelice pro va, ed i primi semi del contagio essi al pari di noi de rivarono dal più grande fra’ loro poeti. Ebbero dunque an ch’essi un’epoca di corruzione, alla quale il celebre Gongora, il Marini delle Spagne, in onta alle prestanti qualità del suo ingegno, diede il proprio nome, come colai che disertò il gusto fra noi diede il suo all’italiana. Fra molti rotti ad ogni temperanza dopo il Gongora, il Silveira ed il Gracian meritarono una funesta celebrità, e disconobbero la vera ricchezza della lingua natia. All’antica semplicità succedette la puerile sottigliezza, alla grandezza la gonfiezza, alle forti immagini le iperboli esagerate e le metafore stranissime. La presuntuosa oscurità tenne l’onorato luogo della modesta elevatezza, ed i pensieri robusti vennero cacciati in bando da’ concetti lambiccati. Tutto quel ch’ era semplice e vero parve fiacco e spregevole da più non conoscersi sul calar di quel se colo. E sembraci degno di osservazione che mentre in Italia poeti di grido, quali furono il Chiabrera, il Redi, il Testi, il Guidi, il Tassoni, il Marchetti, il Filicaja, il Menzini, ed altri molti, non si lasciavano trascinare o appena dal raro plan so ottenuto dal Marini, nelle Spagne niuno volle sfuggire il contagio, e lo stile del Gongora prese tutti di ammirazione. Il Silveyra ed il Gracian furono gli Achillini ed i Preti della letteratura spagnola, e tutti gli altri, qual più qual meno, tutti ne seguirono le vestigia. Dal che vogliam che si noti, non solamente come la natura spagnola fosse più inchinata al turgido ed all’ampolloso che l’italiana non era, ma che le età precedenti non avean nell’ una penisola prodotti tanti egregi scrittori come nell’ altra perché tosto il gusto nelle lettere si affidasse di ritorno. Comunque, le circostanze posteriori migliorassero d’al quanto, e cominciasse a sparire quella genia si malefica che tolto avea a seguire il tumido ed ‘il falso in luogo del nobile e del vero, si durò nondimeno un pezzo ad ascoltar poesie, secondo la voga nata dalla novità dello stile. Giunger non si dovea a distruggere il reo influsso che avea signoreggiato sulla poesia spagnola, ed a porre veramente in ludibrio prose e versi che serbassero lo stile del Gongora, se non che alla metà del secolo XVIII. Ed imprese quest’ardua prova, ma veramente gentile e nazionale, con pari audacia e perizia e fermezza, il giudizioso Luzan, il quale può tenersi come il restauratore della poesia co’ precetti e coll’ esempio. E degni di molta lode furon pare il conte di Torre Palma, D. Agostino Montiano y Loisando, l’Iriarte, il Fernandez de Moratin, Giuseppe Porcel, ed alcuni altri, che pure ebbero in dispetto gli scrittori satelliti del gusto depravato, e con le loro opere sollevarono la poesia spagnola e la ritornarono in parte all’antico splendore. Concorsero in si magnanimo proposito D. M. Gaspare de Jovellanos, Fr. Diego Gonzalez, il facile Cadalso, Iglezias, D. Tommaso de Iriarte, che più d’ogni altro contribuì a formare il linguaggio poetico ed a mondarlo d’ogni licenziosa e plebea contaminazione. Ma innanzi a tutti va notato il magnifico D. Giovanni Melendez Valdes, al quale va debitrice la poesia spagnola, per averla, tanto amico d’un linguaggio castigato limpido e preciso come era, arricchita co’ modi e con le grazie dello stile, e per aver diffuso l’amore dell’arte. E discepoli di lui posson riputarsi diversi poeti saliti in grido a ‘di nostri, quali sono il Quintana, il Cienfuegos, e più tardi Martinez de la Rosa. E tutti quasi si formarono poscia alla sua scuola. Con essi però vedessi rinato il gusto pria del calar del passato secolo, e gli sforzi de’ poeti si volsero a ritornar la lingua in fiore ed a rivestirla del l’antica pompa. Così nel poema di Deucalione del conte Torre, v’ha di molti luoghi notabili per la ricchezza e sonorità della locazione, come ad esempio quello dell’inondazione della terra. Ma gli sforzi di tali poeti senton tutti, do ve più dove meno, di soverchia timidezza. Un’era assai bella venia nondimeno annunziata per essi, e bello era il cammino ove la poesia era felicemente indirizzata, quando a traviarlo sopraggiunsero le langhe ed aspre guerre che funestarono il principio del secolo in che viviamo.

Quando avvertiva Lope de Vega che già ravvisavansi i sintomi che precedettero la decadenza del gusto, e che i delirii degl’ingegni guastavano quanto erasi fatto per lo innanzi querelavasi agli spagnoli che anche la perfezion della lingua venisse manomessa. E se dopo di lui per alcun tempo ancora troviam che se ne conservasse la purezza ed il fiore, segnatamente ne’ drammatici sul finir della dinastia austriaca, è pur meraviglia che buoni modelli di lingua si rin vengano solamente in Solis ed in altri pochi. Cessato il delirio, come si notò, presso alla metà del passato secolo, i restauratori del gusto e delle lettere dotati non eran di mol to poetico ingegno. E però aspirando anzi alla correzione ed alla purezza che ad altre doti, procedeano, come si disse, con soverchia timidezza. E se non incorsero in errori, né rendettero più trista e misera l’eredità della lingua castigliana, non le diedero altrimenti maggior beltà ed elevatezza. A questi felici restauratori successero altri più audaci, i quali fatti accorti della timidezza de’ primi, è dotti delle investigazioni della filosofia sulla grammatica, vennero considerando come molto di pregio guadagnar dovesse la loro lingua, se ad uguagliar fosse giunta la somma esattezza con molti pregi di che s’adorna. E però fu così e non altrimenti, che, mercè le opere di tali scrittori, la lingua spagnola ricuperò gran parte dell’antico splendore, e già tornava tutta a fiorire. Solamente quel buon accorgimento de’ nuovi scrittori esser volea bene aiutato ed allargato; ma sventuratamente l’opera da essi meditata e ben cominciata venne tosto combattuta. Ché presto sopraggiunsero le guerre, le quali rendettero talmente feroci i principii di questo secolo, che a tutt’altro per certo volger si potean gl’ingegni fuorché all’ amena letteratura. Seguirono tempi diversi, ma gli ostacoli, e furon molti, posti alla diffusione del cono scienze, il male delle pessime traduzioni, segnatamente dal francese, e novelle vicissitudini politiche, diedero principio ad un’era novelle di corruzione ad on tempo e di abbandono.

Ricea a dovizie è la spagnola poesia d’ogni sorta di componimenti, ed ha gran copia di scrittori di odi d’ogni le, nome, idilli, egloghe, elegie, satire sermoni, favo sonetti, canzoni, madrigali. Ma oltre a questi evi il romance, componimento, come già dicemmo, tutto nazionale per argomenti, immagini e versificazione, e la letrilla, genere di grazia e di tutta vivezza. Or tutti questi componimenti scorrerem rapidamente, paghi di accennar di tratto in tratto a quei poeti che maggiormente fiorirono.

Quel poeta che fra gli spagnoli si è più avvicinato a Pindaro, e che rimase, e rimane tuttora, secondo che pensiamo, senza eguale, è l’Herrera, al quale in grazia della sublimità delle sue odi venne dato il titolo di divino. Ma come ché professiamo grande ammirazione per un ingegno si bello e si peregrino, e siamo oltremodo passionati ammiratori de’ suoi lirici componimenti, non ci sentiamo molto inchinati a convenire in questa sentenza d’ un vivente scrittore spagnolo, che a ‘ tempi dell’Herrera l’Italia non contasse un poeta d’ugual valore. L’Italia potrebbe opporre il Testi, se contemporaneo all’Herrera non vantasse il Chiabrera, che già avea dettate, come si proponea, poesie da fare inarcar le ciglia. Per venire in chiaro di quanto l’Herrera si avvicini Pindaro, basta leggere la Cancion à D. Juan de Austria di questo sublime poeta. Bellissima parimenti è l’ode sulla Vitoria de Lepanto, che si può tenere come una delle più sublimi odi che abbian mai ammirato le Spagne. E di non minor pregio è quella sulla morte del re D. Sebastiano sconfitto in Africa. Nel legger le quali odici par di vedere quell’alto spirito dell’Herrera che tatto sfavilli d’estro, e detti alti pensieri con espressioni uguali all’altezza de’ concetti. Noi non sapremmo a chi meglio assomigliarlo, se al Chiabrera o al Guidi, tanto in lui ammiriamo la ricchissima fantasia, la grandezza e la forza delle locazioni magnifiche dell’ano, e l’ arditezza, l’ estro ed il fuoco dell’altro. Quei che più si sforzano di tenersi d’appresso e di seguir le alte poste di questo poeta, furono gli Argensolas, poeti distinti pel gusto e la correzione, e che non mancano di fuo co e diestro, nėdi delicatezza nelle poesie amatorie. Ma sopra ogni altro più vicino gli è F. Luigi de Leon, segnatamente in quella sua ode intitolata la Profecia del Tajo, nella quale immagina che il Tago, mentre il re D. Rodrigo gode tra le braccia della Cava, gli annunzia, qual delle Spagne. A noi parve assai simile all’ ode XV del li bro primo d’Orazio che il poeta spagnolo usi tutti gli artifizi del poeta latino. E di fatti il Leon, a sentenza degli stessi spagnoli, differisce dall’ Herrera come Orazio da Pindaro. Egli mostra molta grandezza ed elevatezza, come chè scenda talora sino alla prosa, ma per lo più le grandi idee esprime colle voci più semplici. Nadrito si palesa non solamente della lettura de classici , ma de ‘libri sacri, lo studio de’quali palesa di tratto in tratto ne ‘modi e ne ‘pensieri de ‘suoi componimenti. Noi non sapremmo dare una migliore idea del Leon, se non che assomigliandolo a F. Testi, sebbene per leggiadria d’immagini resti molto addietro al poeta ferrarese. Molti si son pure distinti nelle odi morali. Tra’ quali si ha gran debito di lode non solamente al Leon, ma al de la Torre e al Rioja, che, qual più qual meno, si voglion te ner come degni imitatori di Orazio. Nell’ode a Filippo Ruiz del Leon vi ha sufficienza di grandi e belle immagini. Del Rioja ricorderemo l’Oda a la riqueza e las lacrimas de Italica, componimento pieno di forza, di entusiasmo e d’alti concetti, al tempo stesso che è limato assai e corretto. Fra’ più moderni citeremo Fr. Diego Gonzalez, che si tien molto dappresso al Leon, e soprattutto il Melendez, l’oda del quale sopra la verdadera paz è pezzo d’assai bella poesia. In quella à la gloria de las artes questo poeta usò d ‘ un linguaggio veramente magnifico. E qui forse è il luogo di accennare al canto de las naves de Cortes Destruidas, componimento di D. J. V. de Gusman, che merita d’esser tenuto in pregio anch‘esso. De’ viventi parleremo a suo luogo.

Sul declinar dell’epoca fiorita della poesia spagnola sorse Villegas, il quale, come ché tutto il gusto non avesse e la correzione degli Argensolas, ebbe non lieve splendore dalle erotiche sue poesie, notabili per la loro semplicità e dolcezza. Tradusse pure ed imitò Anacreonte con sufficienza di felicità e maestria, ed ambì che le sue poesie fossero tutte d’ un genere facile ed aggradevole. Se da noi si dovesse assomigliare ad alcuno fra gl’Italiani, a niuni meglio si potrebbe che al Savioli, sebbene l’uso, o a meglio dir l’abuso delle cose mitologiche, lasci l’italiano per la semplicità e naturalezza alquanto addietro del poeta spagnuolo. Sul cader del passato secolo sorse puro D. Giuseppe Cadalso, notabile anch’ esso per la facilità e la scioltezza e la disinvoltura, e D. Giuseppe Iglesias, il quale ricorda spesso il Villegas, e tutti sospiravan sulla lira amore. Ma quei che va posto innanzi a tutti è Melendez Valdes, il quale consegui coi suoi componimenti in simil genere le più belle frondi della sua poetica corona. Assai inchinato e adatto a cantare argomenti d’amore, ed assai più che non fu Villegas, sospirò con dolcezza inimitabile le erotiche sue vicende in versi. Usò d’un pennello assai delicato e d’un colorito assai più soave che fatto non avean per lo innanzi gli altri poeti. L’accento de ‘suoi canti è dolce e tenero e piacevole; e El amor mariposa (l’Amor farfalla), El amor fugitivo, La paloma de Filis, son tali componimenti che non disgraderebbero, secondo che pensiamo, alcuni de’ greci, latini o italiani poeti. Egli venne da qualche scrittore in Spagna paragonato al Metastasio; e certo confessar dobbiamo, che, trattando d’amore con delicata maestria, assai si assomigli al tenero e soave poeta romano. Nelle canzoni, oltre il Garcilaso ed il Mira de Amescua, troviam che si distingua Gil Polo, segnatamente nella cancion pastoril, per grazia, amenità e dolcezza.

In quanto all’elegia, troverem pure tra ‘primi l’Herrera, ed il troverem sempre lo stesso. Perciocché egli è nelle sue elegie troppo piendi fuoco e d’immaginazione, e scorre sen za freno. Vengono appresso il Rioja e il de la Torre. Il primo sa prendere il tuono malinconico dell’elegia, ed i fiori, le stagioni, quanto v’ha nella natura, tutto gl’inspira teneri sentimenti. Il secondo, pieno anch’esso di pregi, mostrassi assai inferiore all’altro in fatto di correzione. E qui pure tra’ più recenti ci abbatteremo in Melendez, che nell’elegia De las miserias humanas è sempre tenero e delicato.

I sonetti più antichi son quei che vennero composti dal Marchese di Santillana prima della metà del secolo XV. Poscia vennero a mano a mano in disuso, e solamente sul principio del secolo seguente Torres Nahạrro ne scrisse in italiano, e non sono del tutto dispregevoli: Ché se ne fece an che Cristofaro de Castillejo, ei nol fece altrimenti che per porre in derisione qui che voleano introdurre questa specie l’endecasillabo e le varie se combinazioni, crebbero i so netti e furono tenuti in pregio. E ne composero Garcilaso, Argensolas, Vega, D. Giovanni Arquijo, e l’ingegnoso Moreto, il quale ha molte doti che lo avvicinano al nostro Angelo di Costanzo. Ricco è ora di sonetti il parnaso spagnolo, ma, come è la sorte di questa specie di componimento, fra tanti di cui abbonda, non son molti certamente i buoni.

La satira spagnola è antichissima, trovandosene sin nel secolo XIV, perocché se ne vengono dell’arciprete de Hita, il quale come poeta satirico (quantunque lottar dovesse tra le angustie della lingua, avendo difetto di quasi ogni voce rispondente al bisogno ed eletta), merita d’ esser distinto come acuto, disinvolto e piacevole scrittore. In un‘epoca più felice per la poesia sorse un altro poeta satirico, il quale unir seppe purità e facile maneggio di lingua maestria di versificazione, e molta grazia che eragli naturale. Fu questi B. Torres de Naharro, il quale fiori ne’ principii del secolo XVI. Ed a scorger quale e quanto ei fosse, basterebbe il vedere la dipintora che ei fa viva e leggiadra de’ suoi tempi. E vogliam che si noti come ei fosse contemporaneo, e scrivesse le sue satire nel tempo stesso che scrivea fra noi, ad un bel circa, le sue l’Ariosto. E l’uno e l’altro vanno altamente lodati per aver impreso a mordere i difetti ed i vizi del loro secolo con magnanima franchezza. Non molto dopo il Naharro venne Cristofaro de Castillejo, il quale essendo pieno di acutezza e di vivezza, e molto concettoso, non si tenne all’altro molto addietro. La satira ch’ ei pubblico in forma di dialogo sopra Las condiciones de las mugeres, è forse la migliore fra quante ei ne scrisse. Ma portiamo opinione che non regga al paragone di quella di Boilean sullo stesso argomento. Quantunque sia piena di grazia e di naturalezza, t’imbatti qua e là in diversi tratti di cattivo gusto, ed in i scurrilità che ripugnano al decoro ed al pudore. A questi soli poeti può veramente ridursi la satira spagnola del secolo XVI: ne segui l’impulso che lo venne dato, perciocché in essa non vollero i buoni ingegni far saggio delle loro forze. E il Barahoma de Soto, il Morillo, ad altri pochi, non uscirono, secondo che pensano gli stessi spagnoli, da’ limiti della mediocrità. Non cominciarono a mostrarsi in essa poeti di maggior nerbo, se non quando cominciò a guastarsi le lettere. E però allora si videro eccellenti scrittori, quali il Jauregui, ‘ il Gongora, gli Argensolas e Quevedo i tre ultimi riputar dovendosi come i migliori. I due fratelli Argensolas si mostrano pari e castigati come i migliori del secolo XVI, e più corretti talvolta di alcuni di essi, e facili e forbiti nella versificazione. Unir seppero dottrina e buon gusto, e meritarono il nome di Orazii spagnoli, comechè noi tutte le doti in essi scorger non sappiamo del poeta della corte d’Augusto. Ma forse in noi è deficienza di necessarie conoscenze di tutti i vezzi e le veneri della lingua castigliana. Pur tuttavia non mancano nelle loro satire di vivezza e di grazia tutta natura, e ben si scorge che Orazio essi presero ad imitare. E però abbondano di oraziane descrizioni, e di pensieri ingegnosi, e dell’amor festivo del subdolo e cinico amico di Mecenate. Talvolta ravvisi in essi un certo empito, come quello che dettava i versi di Giovenale, ma rado avvien che si sdegnino e gridino. E scorgi pure in essi un abuso di erudizione, ed una certa smania di venir prodigando allegorie storiche che spesso gli allontana dal soggetto. Le satire Contra los deseos ambiciosos, e quella Contra los vicios de la corte, soggetti presi a trattar pria da Giovenale e poi da Boileau, son pezzi di bella poesia, e degni d’esser tolti a modello. Quevedo si avvicina più che altri mai a Giovenale, senza però averne le magnanime indignazioni: nondimeno è pieno, arguto, ricco, facile nella versificazione, sottile, ingegnoso, talvolta forte ed energico, gioviale spesso e burliero, amico dell’esagerazione e dell’iperbole. Mostranle sue satire perciò valore, forza, grazia e scioltezza, ma vi traspare al tempo stesso l’affettazione, la licenza, e talvolta la grossolana ed oscena buffoneria. In leggendo questo poeta, e confessiamo di leggerlo spesso, ci corre tosto alla memoria quel F. Berni, del qua le fu detto che potea esser più agevolmente invidiato che imitato. Le sue satire nondimeno, malgrado le grazie berniesche, sono simili per la licenza a quelle di Pietro Nelli sanese. Nella satira sopra Los peligros del matrimonio tolse in alcuni passi ad imitar Giovenale, ed in esso, come nel poeta latino, secondo la felice espressione del Monti, la buffoneria leva la pelle.

Sul calar del passato secolo, in alcune effemeridi di Madrid vennero messe a stampa due satire, generalmente altribuite a D. M. G. de Jovellanos, che univa a saper profondo ingegno vario ed ameno. E quantunque in esse si scorga per ventura qualche tratto poco limato, e mancanza di cadenza e fluidezza nella versificazione, e talvolta qua e là alcune espressioni poco modeste, pure venir debbono tenute in conto di eccellenti. In ana contro alla mala educazione della gioventù, noti e vivo colorito ed una tal quale fina e gioviale vivezza pariniana. Talvolta in essa il poeta prende un tono d’ indignazione severa che molto lo avvicina a Persio, mostrandosi come lai gravissimo e sollecito dell’emendazione del vizio. Nell’altra sulla corruzione de’ costumi, si lascia andare ad una severa energia, ad una rapidità o veemenza, quasi avesse voluto stringere la sferza di Giovenale. E se è vero, come è verissimo, che i sentimenti degli scrittori prendono qualità dal governo sotto cui vivono la collera e la direm quasi virulenza che regna in questa satira, ci porta a giudicar severamente de’ tempi in cui venne pubblicata. Volendosi cercare un poeta italiano che dia un’idea del Jovellanos, noi non sapremmo chi meglio in dicare del vibrato e sarcastico d’Elci. Venne pare in luce un’altra satira nel Diario dei letterati di Spagna, della quale il de Herbas, sotto il nome di Giorgio Pitillas, fu tenuto autore. Versa sopra i vizi ridicoli de’ letterati, e vi noti ricchezza e facilità, e vi abbonda un certo satirico che diletta, soprattutto contro a’ pedanti, i corruttori della lingua ed i cattivi libri. Universalmente parlando però, comechè in tutti questi scrittori di satire si noti in qual più in qual meno grandissimi pregi, vantar ‘ non possono gli spagnoli né un poeta vivo arguto e leggiadro come l’Ariosto, né mordace e al tempo stesso nobile e forbitissimo come il Parini, né vibrato ed epigrammatico come è stato il d’Elci in questi ultimi tempi.

Due sono i poeti che si levarono in fama colle loro egloghe, e questi furono il Garcilaso e Balbuena. Il primo tenero, inchinato alla malinconia, dolcissimo nella versificazione, è quel che meglio si avvicina a Virgilio, che molte volte tolse ad imitare, e spesso felicemente. Fa l’altro facile, ricco, fluido, ma men tenero e forbito dell’altro; nondimeno si piacque della semplice amabilità e precisione de’ greci bucolici, e si avvicina assai più a Teocrito, del quale ebbe pure i difetti. Spesso però passa dalla soverchia semplicità ad una soverchia affettazione. Balbuena presenta con facile pennello gli oggetti più delicati con gran verità, ed esprime talvolta nobili sentimenti e teneri e malinconici al tempo stesso. Sono i suoi quadri assai belli ed animati, e noti da per tutto tinte assai grate e vivaci. Ma Garcilaso è il vero prototipo della poesia pastorale, ed è giustamente tenuto co me il principe dei bucolici spagnoli. Questo dolce e delicato poeta, del quale sarebbe in nostro desiderio che fossero fatti noti all’Italia i componimenti, atto sarebbe più che al tri mai a provar l’affinità dell’italiana e della spagnola poesia. Melendez dettò pare un’egloga premiata dall’Accademia spagnola nel 1780, nella quale dimostrò degno di celebrar la vida del campo. Ne scrisse parimenti il Medinilla, ne scrissero altri pare, de ‘quali la brevità che ci siam prefissa non ci permette di ragionar partitamente. Ma come delle egloghe, l’antico parnaso spagnolo non abbonda in modelli d’idilli, quantunque v’abbiano diversi componimenti che ne meritino il nome. Anche in questo genere si provò l’Herrera, ed uno fra gli altri ne canto, in cui il Betis muove tenere querele contro alla sua Ninfa. Sui principii del secolo XVII ne dettò uno in ottava rima anche Pietro de Espinosa, col titolo di Fabula del Genil, in cui la pittura di quel fiume è assai bella, e bella è la descrizione che fa il nume della sua possanza per cattivarsi l’amor della sua Ninfa.

Vanta il parnaso spagnolo in favoleggiatore sin dalla metà del secolo XIV, e questi fa l’arciprete de Hita. È certo egli è cosa assai increscevole che ingegno tale sorgesse in secolo si rude. Egli tra canti ed avventure amorose introdusse, come ad esempio ed in sostegno di massime morali, vari apologhi per la più parte traslatati dal greco o dal latino. E sebbene egli sia agevolmente chiaro a chi si fa a leggere simili apologhi che per nulla contender possa co gli originali ch’ei prese ad imitare per l’imperfezione della lingua e della versificazione spagnola, pure non si scorge certo senza stupore la semplicità, la verità, ed una certa tal quale senza un certo diletto la favola delle rane d’Esopo, e l’Ejiemplo del mur de Monferrado y del mur de Guadalavara, ch’ è un’imitazione del topo campestre e del topo di città di Orazio. Egli è poi cosa degna di nota, che per non meno di quattro secoli durò nella letteratura spagnola il gusto d’introdur favole in altri componimenti per mostrar di scorcio qualche moralità, come è chiaro per gli apologhi introdotti nelle epistole, e segnatamente nelle commedie, uso al tempo stesso pregiudizievole alla commedia ed alla favola. Da tale uso si dedurre il poco pregio in cui fra gli antichi poeti venne tenuta questa specie di poesia. Lo stesso B. L. Argensola si corretto e si paro, riesce poco aggradevole favoleggiatore. E comechè talvolta si citi dagli spagnoli la favola dell’aquila e della rondine (del aguila y de la golondrina), pure a noi che siamo ammira tori di quel poeta ci è sembrata spoglia d’ogni debita semplicità. Sul finir del passato secolo venne per Samaniego messa a stampa una raccolta di favole originali, tradotte, o imitate, in molte delle quali si ravvisano i pregi che si dimandano in questa sorta di poesie, e segnatamente la semplicità, la naturalezza, la grazia, e la versi locazione facile e sonora. Fra esse vedessi la favola De los gatos escrupulosos, quella Del perro y el cocodrilo, e non poche altre da tenersene onorato qualunque poeta. Esso fu il primo che tra gli Spagnoli abbia meritato il titolo di favoleggiatore; ma non può, a parer nostro, paragonarsi a Fedro per l’eleganza e la correzione, né al la Fontaine per candore e la verità, né al Pignotti ed al Bertola per l’armonia, la grazia e la semplicità. Ma quello che nella stessa epoca lo superò d’assai, fu D. Tommaso Iriarte, le favole letterarie del quale deb bono per la loro originalità riputarsi come singolari ed assai ingegnose. E noti in questo scrittore grazia di espressioni, facilezza, disinvoltura, dialogo vivo ed animato. Se non che desideri talvolta alquanto di più poetico colorito. E fu desso che saggiò, come notammo, nelle sue favole sino a quaranta specie di versificazioni tutte diverse: tante sono le diverse combinazioni alle quali si presta la lingua spagnola. E citar si potrebbero inoltre favole di lui, come el mono del titiritero, los dos conejos, el oso, la mona y el cerdo, el gosque y el macho de noria, el ratón y el gato, los huevos, ec. In cui si rilevano tutti questi pregi. Così beggiamo che in quella De los loros y la cotorra prende motteggiar coloro che nelle Spagnesi piacciono alle innovazioni secondo il gusto della lingua francese, ed in quella intitolata El retrato de golilla biasima l’uso immoderato degli arcaismi; e dell’una e nell’altra si mostra poeta non poco leggiadro. E qui vogliam che si rifletta, come noi Italiani, che contiamo il Passeroni, il Pignotti, il Bertola, il Rossi, quali favoleggiatori distinti, non abbiam fatto se non un qualche leggiero e poco noto saggio di questa specie di favola letteraria, la quale ne pare che riuscir potrebbe ad di nostri di grandissima utilità e diletto.

Nella letrilla, sorta di poesia amena e graziosa, che non ammette voce pensiero che non sia semplice, né espressione che non sia facile, e ripugna soprattutto dal verso sten tato, gli Spagnuoli si sono estremamente piaciuti. Ne scrisse l’Encina pria dello spirar del secolo XV, e vien citato a modello per la sua facilezza. Molti scrittori di letrillas vi ebbero nel secolo appresso, come Hurtado de Mendoza, e nel secolo XVII, tanto sinistro per la letteratura spagnola, si notarono il Villegas, già da noi più volte lodato, e lo stesso Gongora; intelletti fatti a bella posta per queste poesie leggiere, modelli di grazia e di disinvoltora. E sino a noi trovi lungo il cammino il Santillana, il Manrique, il Cadalso notabile per la sua semplicità, l’Inglesias per la grazia e per una tal quale malizia ‘, e dopo di lui il Melendez e l’Iriarte per ragion di tempo e non di merito. Evi pare la letrilla satirica, che dimanda vivezza e facilità, e malizia ed acutezza, nella quale si distinse il Gongora per il modo facile, libero e mordace; e molto si piaceva, dicesi, in questa sorta di poesia libera e sciolta. Ma più che altri vuolsi notare il Quevedo, inchinato dal festivo suo ingegno a questa maliziosa e mordace poesia. Sul calar del passato secolo, così ricco di scrittori, D. Giuseppe Iglesias prese ad imitarli e vinse pure quest’ardua prova.

La poesia nazionale spagnola, come già dicemmo, è il romance. La pieghevolezza del componimento lo rende variatissimo ed atto a cantar mille argomenti affatto diversi. Il romance è la canzone del popolo, ed è consacrata alla tradizione de’ fatti illustri. Le più antiche romanze sono le storiche, come quelle che narrano i fatti del Cid, e quello di Bernardo del Carpio allusive a ‘ secoli eroici. V’ebbe poscia le romanze dette romances moriscos, in cui v’ha men nerbo ed interessamento, ma più garbo ed allegria. Poscia i poeti preferivano i romances pastoriles, dal che nacque, secondo che notano gli spagnoli, che la romanza perdesse in originalità e vigore quanto guadagnò in soavità e dolcezza. Essa divenne languida e scolorita, come scorgessi pe’ componimenti del principe de Esquilache, ultimo scrittore nel quale si ravvisino i resti della ricchezza che ostentò la romanza nel secolo XVII. La romanza servi pure alle ingegnose facezie, e col titolo di romances jocosos ne scrisse il Gongora, ed il Quevedo che scontriam sempre in tutto quel che sente di festività e di malizia.

In quanto a componimenti minori, come gli epigrammi ed i madrigali, troviam notati moltissimi di que’ poeti sinora nominati. B. de Alcazar scrisse fra gli antichi epigrammi, e ne scrissero Salvalor Pole de Medina, il Cadalso, e fra ‘ più moderni l’Iriarte, l’ameno de Iglesias, D. Leon de Arroyal, il Jerica, e non pochi altri. Nel madrigale Gutierre de Cetina e Luigi Moratin cercarono e sperarono nome. Quantunque poi molti e leggiadri epigrammi fra i viventi, de’ quali è tempo di tener parola, scrivesse F. Martinez de la Rosa, invano cercheresti tra gli scrittori spagnoli il festivo ed incomparabile Pananti.

Non contano gli Spagnoli, per quanto sia a nostra notizia, poemi didascalici di grido: ed invano si chiederebbe da loro un poeta come l’Alamanni, il Ruccellai, il Valvasone, l’Arici. Molti però sono quei che impresero a scrivere sull’ arte poetica. Per la qual cosa troviam che il Marchese di Santillana detto un’epistola sopra la storia della poesia, il Cascales scrisse Las tablas poeticas, e D. Juan la Cueva El exemplar poetico, citato con encomio ed assai spesso. Luzan, che sollevò le lettere prostrate nelle Spagna dal cattivo gusto, uni agli esempi i precetti, e scrisse una poetica piena di giudiziose osservazioni.

Forse che qui ci correrebbe l’obbligo di ragionar della Diana del Montemayor della quale Gil Polo fu il continuato re, del poema Le selve dell’anno del Gracian, e più partitamente del Deucalione del conte di Torre Palma, come dell’ Araucana di A. d’Ercilla; ma oltre che ciò ne menerebbe troppo oltre i confini che ci siam prefissi, di taluni di questi poemi trovar se ne può in altri libri qualche cenno.

Facendoci ora a parlar brevemente de’ viventi che son più saliti in fama, più difficoltosa divien l’opera nostra, perché volendo cansar la taccia di troppo facili, incorrer non vorremmo in quella di troppo severi. Niuni contemporaneo d‘altronde può guidarci ad un giudizio al quale altri star potesse contento. Ché rade volte veggiamo che i letterati si acquetino al giudizio d’uno straniero. Pure affidati all’esempio de classici veri, direm poche cose de’ soli più celebrati, Quintana e Martinez de la Rosa.

Quintana è nome famoso ne’ fasti della moderna letteratura spagnola. Egli è poeta d’indole severa grande pieno di fantasia e di forti immagini e pensieri. Gli eruditi avean notato sin negli autori latini delle Spagne, che quante volte gli Spagnoli abbiano voluto esser sublimi diventassero turgidi ed ampollosi. Quintana è fra que’ pochi che smentiscono quest’ asserzione. Quintana per la splendidezza delle immagini, per la svariata ricchezza de’ suoni, è il Monti delle Spagne. Fecondo poeta e felice colorista, non cessa però dall’ andar soggetto a replicati sbalzi di stile. Egli comprese e valutò la condizione de’ tempi in cui vive, e cantò delle pubbliche vicende della Penisola con quella calda poesia e con quella focosa eloquenza che signoreggia i cori à grado suo. La più bella fra le sue odi, oltre quella della pace del 1793, è l’oda sulla battaglia di Trafalgar combattuta contra gli Inglesi. Terribile battaglia fa quella, nella quale vennero prostrate le ultime forze navali delle Spagne. Si mostrò uguale e forse in taluni momenti superiore al l’altezza di quell’argomento. A noi duole di non potere offrire la versione tutta intera di quest’ode, né vogliam darne alcuna strofa perché non ci fornirebbe un’idea esatta della grandezza dell’assieme. Questa bell’ ode, con alquante altre dello stesso autore si veggono nella bella raccolta delle poesie spagnole messa non è molto a stampa in Madrid.

F. Martinez de la Rosa è l’altro poeta del quale si mena vanto a dritto nelle Spagne. A noi di tutte le sue poesie non son note che quelle per lui pubblicate, presso T. Jordan in Madrid, nell’ agosto del 1833. Le quali, comenchè non vengan da lui riputate le migliori, pur nondimeno giustificano il pregio in cui vien tenuto. Non vuolsi né suoi componimenti demandar né l’empito e l’energia dell’Herrera, né l’elevatezza del Leon, né la forza del Quintana, perché non è, secondo a noi sembra, poeta forte nelle immagini ed ardito nell’invenzione. Egli è della scuola del Melendez, e va noverato come poeta semplice, tenero, castigato, elegante. Possiede una beata vena di poesia ed una felice abbondanza di modi. Noi non sapremmo a chi meglio assomigliarlo fra gl’Italiani, se non che nelle sue brevi odi siam tentati di paragonarlo al Fantoni. Scrisse nel 1809 per il concorso del 1812 un poemetto sull’assedio di Saragozza, nel quale, tra le troppe storiche minutezze che ne rendon l’andamento monotono, si scorgono squarci di assai bella poesia. Tale, ad esempio, è l’apparizione a Palafox di Rebelledo il Grande.

Mise a stampa pure diversi canti d’un poema in ottava rima sopra le imprese degli Spagnoli in Africa, che non venne compiuto, e nel quale si rinvengono di assai belle stanze che l’Ariosto non sdegnerebbe riconoscer per sue. Notabile è pure la sveltezza delle sue brevi poesie, soprattutto per una elegante facilità con la quale son gittati i suoi versi. ‘E ne potremmo venir citando un gran numero, come il Sogno di Amore, El amor y la sensitiva, El nacimiento de Venus, La Luna, La golondrina, nelle quali è assai notabile questa artificiale sveltezza. E meriterebbe pure che per noi si venisser traducendo talune altre poesie, come il Trionfo, il Sogno, La canción del captivo, nelle quali è semplice, tenero, vivo, evidente. Nei discorsi è grave, morale, elevato. Quello sulla solitudine, ad esempio, a noi sembra di un’assai bella poesia. In quello sulla temperanza dei desideri toglie ad esempio Napoleone, e la condizione di lui che da tanti sogli sbalzò sullo scoglio di S. Elena.

***


Nel discorso sopra i limiti della ragione umana è della descrizione d’un sogno assai viva, e tutto il componimento è pieno di forza, di energia e di evidenti pensieri. Scrisse pure ana poetica in versi ed in più canti, accompagnata di profonde ed erudite annotazioni, che a noi sembra quanto si possa desiderar di meglio.

Più cause cospirarono a far degli Spagnoli un popolo eminentemente poetico: clima favorevole allo slancio del l’immaginazione, lingua piena di numero e di vigore, do mestichi fatti eroici e grandiosi. Il popolo, fascinato dal meraviglioso degli avvenimenti, inspirò i poeti, ed i poeti sen i tir dovettero come il popolo. E queste cause ci chiariran delle originali bellezze e de difetti della spagnola poesia. Il popolo imponeva i metri e l’andamento delle canzoni, che tali si serbarono sino ad di nostri quali furono anticamente dal popolo cantate. Epperò nella poesia spagnola, più che in ogni altra moderna, si nota l’influenza della situazione politica della nazione: naturalezza nelle forme, semplicità, ingenua effusione del cuore, sono le doti delle canzoni dell’epoca cavalleresca; splendore, grandezza, arditezza delle poesie che si cantarono durante lo strepito delle vittorie di Carlo V; stranezza, turgidezza, inverosimiglianza quando i disastri del l’armada e degli eserciti, e la ferocia delle domestiche leggi, lasciarono ne’ poeti il desiderio e la ricordanza della prece dente grandezza. E però bisogna pure impartir questa lode ai poeti spagnoli, che essi non falsarono mai, almeno i buoni che soli voglion si tenere in pregio, le sane massime; non mai raccomandarono l’errore, né mai lodarono i vizi trionfanti. Giammai non si tennero stranieri agli avvenimenti ed alle fortune della loro patria. E come l’Herrera cantava la battaglia di Lepanto, che fu la vittoria della cristianità, e la morte del re Sebastiano, cosi a ‘ di nostri udimmo Quintana cantar la battaglia di Trafalgar e la pace del 1796 de la Rosa l’assedio di Saragozza, e molti altri poeti di minor grido celebrare i domestici fatti, le poesie de’ quali possono vedersi nella recente collezione di poesie spagnole venuta in stampa in Madrid recentemente; tra le quali evvium, assai bell’ ode sull’entrata de’ volontari aragonesi in Madrid durante la guerra dell’Indipendenza. I limiti che era mestiere prefiggerci, ed il divisamento di osservar la copia de’soli classici, ci dispensano, speriamo, dal ragionar partitamente di altri poeti viventi di minor fama. Basti solo il dire, che i poeti spagnoli, lottando fra difficoltà grandissime, sostengono pur tuttavia assai degnamente la parte che loro si addice nella moderna poesia europea.

Pietro C. Ulloa





1. Anche nel rimanente d'Italia i canti popolari hanno rime assonanti invece di consonanti. Se ne vede un esempio nella Tancia del Buonarroti, atto III, scena XII. (N. del C.)
2. Se nell’arbitrio di formar parole composte la lingua spagnuola cede alla greca, non così alla latina e all’italiana, le quali supera poi per ricchezza di derivati d’ogi sorta. Basta, per averne certezza, il dare un’occhiata alla prefazione del dizionario spagnuolo e francese del Capmany. (N. del C.)

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2018M Luisa Díez, Paloma Centenera